La corruzione
Ma alla fine, la corruzione è un’invenzione della rete Globo e una semplice scusa per rovesciare il governo? No, assolutamente no. Purtroppo il dibattito pubblico è tanto deformato e accecato dai fattori che stiamo descrivendo da far perdere di vista quello che le indagini stanno oggettivamente rivelando. Al di là dei casi individuali, che si definiscono solo dopo il giudizio definitivo, sembra assodato al di là di ogni ragionevole dubbio che esiste un sistema organizzato di finanziamento illecito delle campagne elettorali e dell’attività politica dei partiti. La Petrobras serviva come fonte costante di risorse per i partiti, principalmente quelli al potere. Le grandi imprese brasiliane, in particolare quelle che dipendono da appalti pubblici, riservano regolarmente parte delle loro risorse per pagare politici di tutti gli schieramenti. Questi finanziamenti erano in parte leciti, perché la legge brasiliana permetteva il finanziamento delle campagne elettorali da parte delle imprese, in parte illeciti e nascosti. Il denaro fornito illegalmente può essere diretto a partiti o a semplici candidati o a politici considerati “importanti”, prendendo quindi la forma di vere tangenti. Il PT ha tentato durante questi anni, timidamente, di mettere mano alle leggi che regolano il finanziamento della politica, ma si è scontrato con resistenze insuperabili del congresso, e probabilmente ha anche ceduto alla tentazione di accettare le regole di un sistema illegale adeguato a garantire la conservazione del potere. La corruzione, inoltre, è dilagante in tutte le istituzioni periferiche. La politica è considerata dalla maggior parte dei suoi protagonisti un mezzo per far denaro. Indentificare il fenomeno corruttivo, endemico nella società brasiliana, col Partido dos Trabalhadores, o anche considerarlo il principale protagonista di questo sistema costituisce un vero delirio psicotico, una disfatta del principio di realtà; ma è un fatto che il PT è entrato in questo sistema, non ha saputo cambiare le regole del gioco e anzi, si è messo a giocare allo stesso tavolo dei suoi nemici pensando che fosse l’unico modo per mantenere il potere, o anche in parte per reale svendita dei suoi ideali originari. È anche un fatto che il governo Dilma abbia aumentato con concrete misure legislative e amministrative l’autonomia e la capacità operativa degli organi inquirenti. In sostanza è vero, come sostiene Dilma, che il suo governo ha sostenuto e potenziato la lotta alla corruzione dal punto di vista investigativo-giudiziario, ma è anche vero che i governi del PT si sono mostrati incapaci di combatterla sul versante della pratica politica e delle riforme legislative necessarie.
Il congresso e l’Impeachment: un golpe?
Arriviamo qui al punto, al centro del dibattito politico attuale e anche ai fatti che i giornali internazionali stanno ponendo all’attenzione dei loro lettori. È in corso un tentativo di aprire un processo di Impeachement della presidentessa che, se andasse a buon fine, porterebbe alla caduta del PT e a un ‘governo provvisorio’ che amministrerebbe il paese fino alle elezioni del 2018. Parallelamente, una parte della magistratura e i mezzi di informazione sono concentrati nel tentativo di rendere impraticabile una eventuale ricandidatura di Lula, attraverso una offensiva mediatica e giudiziaria basata su presunti illeciti dell’ex-presidente. È necessario un breve approfondimento sul Congresso Nazionale, il parlamento brasiliano.
Le elezioni parlamentari brasiliane avvengono secondo modalità singolari. Il Senato è eletto per via maggioritaria; le elezioni della Camera sono proporzionali, con voto di lista e possibilità di esprimere una preferenza; tuttavia, sono vissute dalla popolazione e dai suoi stessi protagonisti come elezioni maggioritarie uninominali. Voglio dire: le campagne elettorali sono totalmente personalistiche; i singoli candidati si promuovono come se fossero appunto candidati di elezioni uninominali, spesso nascondendo il partito o la lista a cui appartengono. Gli elettori votano il candidato (in realtà stanno esprimendo una preferenza) senza avere, spesso, la minima idea di quale partito stanno votando. Sembra surreale, ma è esattamente così. Questa pratica porta a una tremenda selezione su base patrimonialistica (è eletto chi, per una ragione o per l’altra, ha i soldi per finanziare una campagna elettorale personale), a una fedeltà partitaria spesso inesistente (il PT in questo fa relativamente eccezione) e al fatto che il comportamento parlamentare di ogni singolo deputato e senatore obbedisce in genere a considerazioni totalmente estemporanee e a calcoli di convenienza svincolati da qualsiasi riferimento ideologico o semplicemente politico. È considerato normale per esempio che i parlamentari di uno dei partiti più rappresentati, il PMDB, si dividano tranquillamente tra sostenitori e acerrimi nemici del governo in carica.
Il voto favorevole o contrario dei parlamentari ai provvedimenti proposti dall’esecutivo è quindi regolato da estenuanti trattative, spesso personali, basate su favori e vantaggi specifici dati a questa o quella forza, a questo o quel parlamentare. Un procedimento di tipo corruttivo continuato e istituzionalizzato.
Il processo di impeachment contro Dilma Roussef non ha nessuna base giuridica e costituirebbe una totale forzatura costituzionale. I mezzi di comunicazione si sforzano, con successo, di farlo apparire dipendente dall’inchiesta lava-jato o da crimini di corruzione. In realtà, fra le tante critiche che si possono fare a Dilma Roussef nessuna coinvolge la questione morale. Dilma è una persona integra e praticamente inattaccabile da quel punto di vista. Il processo di impeachment si baserebbe su certi artifici contabili praticati dal governo, un ritardo nel contabilizzare dei pagamenti alle banche pubbliche al fine di chiudere con meno passivi il bilancio. Un po’ di finanza creativa, insomma, come diremmo noi italiani. Non credo ci sia bisogno di commentare la debolezza giuridica di un’azione finalizzata alla destituzione della prima carica dello stato, basata su pratiche amministrative in un modo o nell’altro diffuse a tutti i livelli istituzionali.
Ma pure nella totale inconsistenza formale, il processo avverrebbe, dalla sua istituzione alla sua conclusione, esclusivamente in ambito parlamentare. In sostanza, è sufficiente, anche senza prove, anche teoricamente nella più totale arbitrarietà, una maggioranza parlamentare qualificata per avviare e portare a conclusione l’impeachment. Come si sarà capito, un meccanismo costituzionale pensato per reagire a gravi crimini delle cariche esecutive viene usato, nell’intenzione dei suoi promotori, come un mezzo per ritirare la fiducia parlamentare al governo in carica. Ma il Brasile è una Repubblica Presidenziale, e la permanenza dell’esecutivo non dipende, secondo la norma costituzionale, dalla fiducia dei due rami del parlamento. Questo intenzionale fraintendimento costituirà, se portato alle ultime conseguenze, secondo l’opinione di una parte crescente dei giuristi, degli intellettuali e dell’opinione pubblica brasiliana, un vero colpo di stato volto al rovesciamento del risultato delle elezioni democratiche del 2014.
La maggioranza silenziosa
In tutto questo turbinio a volte carvevalesco di conflitti politici, giornalistici e giudiziari c’è una voce, difficile da sentire e da interpretare, ma potenzialmente decisiva: quella della maggioranza della popolazione brasiliana. Nelle sconfinate periferie cittadine di questa nazione enorme vivono cittadini, impegnati nel duro mestiere della sopravvivenza. Le loro realtà sono differenziate quanto misconosciute e sottorappresentate nel dibattito pubblico. Questa maggioranza, che non legge giornali, che fatica a esprimersi in autonomia nel dibattito pubblico, i cui figli per la prima volta stanno accedendo in massa all’istruzione e stanno cominciando, in casi ogni giorno più comuni, ad arrivare all’istruzione universitaria, non ha partecipato in questi giorni alle manifestazioni, né dell’una né dell’altra parte. Ha votato però per Lula e poi per Dilma, per quattro volte, dando fiducia a un uomo, Lula, che era incontestabilmente per immagine, linguaggio e biografia, sua espressione. Ha consolidato e sostenuto elettoralmente un ceto politico che ha saputo portare cambiamenti profondi, attraverso politiche di inclusione sociale e razziale e l’indiscutibile centralità data dai governi del PT allo sviluppo dell’istruzione e della sanità pubbliche e gratuite. È sostanzialmente il Brasile che in questi 15 anni si è trasformato, trovando dignità, lavoro meglio retribuito e un miglioramento relativo delle condizioni di vita, il che, ai margini tra miseria e povertà, può significare, semplicemente, vivere e non morire.
E la classe in cui il PT è nato e su cui si sostiene (il PT non è un partito di opinione!), ma, nonostante la presenza di generosi movimento sociali, animati da una combattiva –ma minoritaria- militanza, partecipa poco alla vita politica in prima persona. Determina però fortune e insuccessi elettorali. Lula, interpretandola e impersonandola, ha liberato questa maggioranza dalla funzione conservatrice a cui il clientelismo elettorale l’aveva da sempre confinata. Lula, attenzione, non il PT:Lula.
Dilma e la perdita del consenso
Dilma Roussef ha una biografia totalmente diversa rispetto al suo predecessore. La sua militanza contro la dittatura, che ha conosciuto momenti drammatici, affascina e impressiona la classe media progressista e gli intellettuali. Ma la maggioranza silenziosa l’ha votata per indicazione, e per proteggere i programmi sociali creati o consolidati nei due mandati precedenti. Dilma non ha saputo, e forse non poteva, creare un rapporto diretto e conquistare la fiducia della popolazione. Di Lula non ha né la biografia, né la visione politica. Dopo un primo mandato interlocutorio, alle prime difficoltà nel secondo ha ripiegato su politiche volte all’austerità e a una gestione amministrativa sostanzialmente sterile. La grande, e a volte discutibile, capacità di Lula di cooptare gli avversari nel proprio progetto egemonico si è trasformata nel tentativo di interpretare le politiche della controparte. Non ha conquistato i propri nemici, e ha perso il sostegno del suo popolo. La lava-jato ha sfondato una porta che già era quasi aperta. La crisi economica e il primo reale peggioramento delle condizioni di vita popolari da quasi due decenni hanno praticamente azzerato il suo consenso e la sua capacità di leadership. Il parlamento ha capito l’aria che tira e ha fatto in modo da paralizzare la nave, aspettando il momento opportuno per farla affondare. L’esaltazione rabbiosa espressa dalle manifestazioni della classe media alienata può confondere l’osservatore: quelle persone che nelle strade delle capitali le hanno augurato alternativamente la prigione e la morte non hanno mai cambiato opinione in tutti questi anni: semplicemente si sentono, in questi giorni oscuri per la democrazia brasiliana, autorizzati ad esprimere a voce ben alta tutta la loro barbarie. Ma ciò che ha tolto il terreno sotto i piedi a Dilma Roussef, la debolezza che ne ha da tempo paralizzato l’azione e che nelle intenzioni dei golpisti dovrebbe portare alla fine anticipata del suo mandato, è il movimento silenzioso ma percepibile con cui il suo stesso popolo le ha ritirato la fiducia.
Lula e l’inaspettata risposta della Democrazia brasiliana
Esiste, a questo punto dovrebbe essere chiaro a chi mi ha seguito fino a questo punto, una strategia di forze reazionarie che in Brasile trovano espressione, più che nelle screditate forze politiche della destra parlamentare, nel dominio di mezzi di comunicazione di massa la cui proprietà è concentrata nelle mani di poche potenti famiglie e in una parte della magistratura disposta ad agire in sinergia con esse. Questa strategia è rivolta principalmente ad assicurarsi che, al massimo nel 2018, il ciclo dei governi popolari in Brasile termini, se possibile definitivamente. La lotta alla corruzione in questo contesto non è niente più di una apparenza superficiale che senza ombra di dubbio cadrebbe in secondo piano già a partire dal giorno successivo di un’eventuale caduta dei governi di sinistra.
Senza le possibilità economiche dell’avversario, espressione delle élite del paese, trascinata dalla verticale perdita di consenso del PT e dalla sua scarsa capacità di reazione, tramortita dal coinvolgimento, non universale ma effettivo, in pratiche criminali di gestione del potere, la sinistra politica brasiliana ha in questo momento, in apparenza, una sola carta buona da giocare: la candidatura di Lula nel 2018. Il vecchio leader ha la potenzialità di aggregare intorno a sé, nuovamente, quel blocco sociale che ha garantito, attraverso le luci e le ombre dei successivi governi “petisti”, progressi sociali e civili considerevoli e probabilmente prima impensabili. È assolutamente impossibile infatti, a un osservatore con un minimo non dico di oggettività, ma di senso etico, negare le enormi trasformazioni avvenute in questi anni nella società brasiliana. In Brasile ogni anno la disuguaglianza è diminuita, mentre nel mondo intero aumentava. Discretamente, senza entrare in confronto diretto con un corpo sociale non sempre aperto a politiche progressiste, i successivi governi hanno approvato misure importantissime dal punto di vista dei diritti civili e hanno condotto, in questo campo almeno con innegabile coerenza, un discorso pubblico sempre volto all’inclusione sociale e al superamento delle molte “eredità maledette” insite nella storia di questo paese. Qui non si discute per esempio, come in Italia, se singoli o coppie omosessuali possano o no adottare figli, perché questo già succede da tempo. Le scuole e le università stanno, con specifici provvedimenti legislativi, garantendo l’accesso a chi ne è sempre metodicamente stato escluso: i neri, gli indios, i poveri. E l’elenco dei provvedimenti potrebbe continuare.
Questa è la ragione per la quale Lula è diventato un obiettivo sensibile del bombardamento mediatico e giudiziario di questi giorni. Il complesso delle forze reazionarie di cui ho parlato ha agito con tutti i mezzi per rendere impossibile la sua candidatura. La magistratura di Curitiba ha commesso un errore madornale e imperdonabile esplicitando la sua disponibilità a collaborare fuori dalle regole democratiche con l’apparato dei media al fine di ottenere, in definitiva, un’immagine: quella dell’ex-presidente ammanettato, equiparato a un criminale comune. Per distruggere quel legame di identificazione con la maggioranza silenziosa a cui la destra, prigioniera del suo elitismo, è totalmente incapace di rivolgersi in modo propositivo.
Quello che la destra non prevedeva, e che ha certamente impresso una direzione diversa agli eventi, aprendo una lotta aspra e non di breve durata, è stata l’affermazione di un nuovo e intenso movimento democratico, un’aggregazione spontanea di vecchie e nuove forze sociali e intellettuali, che hanno trovato unità di espressione intorno alla difesa dello stato di diritto e dei progressi sociali e civili degli ultimi anni. È qualcosa di nuovo, un movimento che non si identifica con il PT e che ha in sé il potenziale di designare un cammino, oltre il probabile esaurimento del modello di governo rappresentato dall’attuale presidentessa. Una forza che ha ripreso possesso delle strade e delle piazze, che sembravano ormai territorio conquistato da quella parte di classe media egemonizzata da forze reazionarie e potenzialmente violente, e sta esercitando un’effettiva capacità di convinzione e di intervento nel dibattito pubblico. L’importanza di questo rinascimento democratico è enorme, innanzitutto perché ha interrotto un processo che, senza resistenza, pareva destinato a esiti come minimo autoritari, all’umiliazione delle strutture democratiche e all’affermarsi di un revanscismo reazionario o parafascista.
Qui siamo oggi: in una fase di lotta aperta. Al di là della congiuntura, delle vicende legate alle pretestuosa richiesta di impeachment o alle farsesche denunce contro Lula, al di là della sopravvivenza e della residua capacità di azione politica del governo in carica, due concezioni antitetiche della società brasiliana e del suo futuro sono in campo e stanno combattendo una durissima lotta per conquistare potere e egemonia. Il futuro non lo conosco, è in costruzione, e io non ho il talento dell’aruspice. Ma spero sia chiaro, per chi ha avuto la pazienza di seguirmi, che oltre le ricostruzioni variamente grottesche operate dalla stampa locale e dai mezzi di informazione italiani che la copiano pigramente –o colpevolmente-, la maggiore democrazia dell’america latina è a un bivio. La strada che verrà presa –e le possibilità sono tutte aperte- condizionerà per molto tempo la vita di centinaia di milioni di persone.